La pizza alla catanese
Le tradizioni gastronomiche non si mantengono nel tempo. Alcune cambiano, altre rischiano di perdersi. Ad esempio le scacce del modicano-ragusano, un prodotto di rosticceria povero ma di altissima qualità e gusto, rischia di perdersi nell’omologazione indotta da modelli di consumo importati.
Pensate che nel corso della mia ultima visita a Ragusa Ibla, due anni e mezzo addietro, la famosa bottega che produceva scacce continua ancora a farle, ma nell’insegna c’è scritto “focacce”!
Credo invece che occorra salvaguardare la denominazione originale e farne un presidio gastronomico e per questo mi rivolgo agli amici di quella zona.
Anche a Catania, nel campo della rosticceria, si sono conservate le tradizioni delle scacciate e delle crispelle, ma non quella della pizza.
Non riesco più a trovare la pizza come la mangiavo negli anni cinquanta, vicino a casa mia, nei locali di una nota rosticceria. Venendo da piazza Cappellini, adesso piazza Falcone, ti lasciavi sulla sinistra il palazzo Fischetti, e alla destra il Crocifisso della buona morte, un nome non propriamente beneaugurante per la mia parrocchia.
Nella piazza v’era un grande mercato all’aperto che proseguiva per l’attuale via De Curtis dove si trovava il cinema Mirone, mitica sede del Cineforum negli anni ottanta. All’incrocio venivi circondato dai profumi e dagli effluvi dello strutto fritto provenienti da tre o quattro rosticcerie che si trovavano all’incrocio fra l’attuale via De Curtis, che proseguiva nella via Di Prima (dove iniziava la zona proibita di quelle che allora venivano definite le case chiuse) e la via Monsignor Ventimiglia.
Entrando nella rosticceria trovavi subito alla tua sinistra tre enormi caldaie dove friggeva in continuazione lo strutto in cui cuocevano arancini, crispelle, pizze, sfincioni. I tre fratelli che la gestivano, tondi grassi e rubicondi, badavano alle caldaie: il maggiore, più alto e più rotondo, a quella più grande, il secondo, lievemente più basso ma con rotondità proporzionalmente uguale a quella del maggiore, alla caldaia intermedia. Il più piccolo d’età, che era anche il più minuto, perché sembrava che la loro mamma nel generarli avesse perso progressivamente potenza creatrice, era addetto alle crispelle che produceva a getto continuo e a velocità supersonica, mescolando con straordinaria abilità l’impasto con la ricotta o con l’acciuga e versando il tutto nello strutto. Sì, perché lo strutto era d’obbligo, anche in famiglia. Si preparava d’inverno con il grasso di maiale: spesso si compravano le cotiche ( “a cutini”) che si cuocevano a parte con un sottile strato di grasso, lasciandone la maggior parte da sciogliere in padella per la preparazione dello strutto. “A saimi” il nome catanese per lo strutto, si conservava per le preparazioni alimentari, ma veniva usato in famiglia anche per i massaggi sulla schiena dolente. Ciò che restava della preparazione, piccoli pezzetti croccanti di grasso, le cosiddette “frittule”, (a Bologna chiamati “ciccioli”) venivano anch’essi conservati per usi alimentari.
Dunque entrando in rosticceria si chiedeva la pizza alla catanese e se non era pronta il più piccolo dei fratelli te la preparava all’istante.
Gli ingredienti per (4 persone):
per la pasta:
500 g di farina
180 ml di acqua
70 grammi di strutto
12 grammi di lievito di birra
1 cucchiaino di zucchero
10 grammi di sale
Preparazione della pasta:
sbriciolate in una ciotola il lievito di birra, unite il cucchiaino di zucchero quindi versate 50 ml di acqua tiepida; fate sciogliere bene il lievito mescolando con un cucchiaino; unite poi 2 cucchiai di farina, quanta ne serve per formare una pastella molto morbida, che lascerete riposare per mezz’ora. Passata la mezz’ora versate la restante farina in una ciotola capiente ed unite la pastella, aggiungete lo strutto, dopodiché fate sciogliere i 10 gr di sale in circa 125 ml di acqua tiepida. Quando il sale si sarà disciolto versate tutta l’acqua all’interno della ciotola e cominciate a impastare. Quando il liquido sarà stato interamente incorporato alla farina trasferite l’impasto su un piano infarinato e lavoratelo fino a quando sarà diventato liscio ed omogeneo, quindi date all’impasto una forma di palla, incidetela a croce, e posizionatelo in una ciotola capiente che avrete precedentemente spolverizzato con una manciata di farina. Coprite con un panno e lasciate lievitare per circa 4 ore in un ambiente tiepido e privo di correnti d’aria, fino a quando l’impasto avrà circa triplicato il volume.
Per il ripieno:
tuma fresca;
acciughe salate diliscate;
cipollotti freschi finemente tritati (possibilmente con un coltello di ceramica per evitarne l’ossidazione ed evitarvi di piangere).
La preparazione della pizza:
stendete la pasta su un piano e createne dei dischi di diametro equivalente ad un piatto da frutta e dello spessore di 2-3 millimetri. Copritene metà con tuma, tre o quattro filetti di acciuga e abbondanti cipollotti. Se gradite, e se la tuma è vera tuma senza grani di pepe, aggiungete a piacere una spruzzata di pepe nero macinato all’istante. Ripiegatevi sopra l’altra metà, pressate sui bordi e ritagliate l’eccedenza con una rotella. Ricaverete così delle mezzelune che metterete a friggere in strutto (la pizza catanese tradizionale era di colore pallido) o in olio d’oliva (verrà di colore paglierino come le crescentine bolognesi). Accompagnate con un buon Nero d’Avola o meglio ancora con un Cerasuolo di Vittoria, oppure, per gli amanti della digestione rapida, con una buona birra di frumento hefe weiss ben fredda, nella quale potrete anche spremere qualche goccia di limone.
Per la ricetta precedente clicca qui Torta salata all’Acitana