Musica: dissertazioni a cura di Fidelio. 5° puntata del viaggio con Bellini.
Ma Bellini si chiamava Massimo?
5 Un Pirata made in Sicily.
La statua che rappresenta Il pirata alla base del monumento a Bellini in piazza Stesicoro (foto di Fidelio).
Eccoci dunque pronti ad affrontare il primo lavoro importante del nostro Vincenzo.
L’argomento venne proposto da Romani (“soggetto che mi parve adatto a toccare le corde più sensibili di Bellini”), traendo ispirazione, alla lontana, da una tragedia dell’inglese Charles Maturin, Bertram, di fosche tinte gotiche, in cui il carattere del pirata si tinge addirittura di demoniaco nella sua rivolta contro tutto e contro tutti e i protagonisti sono travolti da una passione portata all’estremo.
Tradotta in francese, la tragedia diede poi origine a un mélodrame, che non era il nostro melodramma, bensì un genere misto di prosa e canto con contorno di danze, dato che i francesi al balletto non ci volevano rinunciare mai. Da questo adattamento nasce la nostra storia.
Il pirata può essere considerato l’opera che inaugura il romanticismo musicale italiano e in essa Bellini ha già creato il proprio stile inconfondibile, che tuttavia non è sempre così languido e dolcemente malinconico come si pretende e come farebbero in effetti pensare titoli come Dolente immagine di Fille mia (romanza composta quando era ancora a studiare a Napoli) o Malinconia ninfa gentile (di cui vi ho suggerito l’ascolto nella scorsa puntata); quando è necessario, ci si mette tutta l’irruenza che ci vuole, anche se qui, come nelle opere successive, Bellini tenda sempre a non esasperare le situazioni.
Si narra peraltro che al celeberrimo Rubini abbia lui stesso spiegato come dare vita alla parte: “sei freddo … mettici un po’ di passione … se mi fossi posto in capo d’introdurre un nuovo genere ed una musica che strettissimamente esprima la parola, e del dramma e del canto formi solo una cosa, dovrebbe rimanere per te che io non fossi aiutato?” (il corsivo è mio).
Giovanni Rubini nel Pirata. Milano, Museo Teatrale alla Scala.
Se Il Pirata è la prima opera romantica italiana, così Giovanni Battista Rubini è il prototipo del tenore romantico. Come dicono le mie fonti enciclopediche, aveva fatto il suo esordio in uno dei capolavori di Rossini, L’italiana in Algeri alla quale ho già accennato. Aveva eccezionali doti virtuosistiche, voce chiara e dolcissima estesa sino al si bemolle, ma usando il falsettone arrivava al fa sopracuto (perbacco! ce ne fossero ancora così).
Per finire di citare la Garzantina della musica, “il suo accento estatico e il suo fraseggio toccante diedero inizio al mito del tenore romantico”.
(Lo sappiamo cos’è il falsetto, vero? quando si fa la vocina da donna… ovvero è la cosiddetta ‘voce di testa’, usata per note così acute da non potersi raggiungere con la voce naturale o meglio ‘di petto’, che sfrutta le cavità del torace. Il falsettone è un falsetto rinforzato che usa non solo le cavità di risonanza del capoccione, soprattutto tenorile, ma anche del torace.)
Il pirata è una delle due sole opere, con la precedente Bianca, ad essere ambientata in Sicilia, nell’immaginario castello di Caldora, che dovrebbe trovarsi, credo, più o meno tra Messina e Palermo, lontano dalle nordiche brume tra le quali si aggirava Bertram. Il quale adesso si chiama Gualtiero ed è diventato molto meno demoniaco dell’originale, pur restando fedele allo stereotipo dell’esule e del proscritto perseguitato dalla cruda sorte; insomma, si colloca di diritto nella serie ‘belli e dannati’.
Ambientato in Sicilia, dicevamo dunque, e nel castello di Caldora.
A inizio dell’opera, come di consuetudine, la cosiddetta sinfonia; e dico cosiddetta perché sinfonia non è, bensì un‘ouverture, il che vuol dire semplicemente un brano di apertura; è così chiamata impropriamente nelle opere italiane (la sinfonia della Norma, la sinfonia della Forza del destino...), perché è eseguita dalla sola orchestra, come una composizione sinfonica. Dovrebbero farsi a sipario ancora chiuso, questi brani, ma da tempo non si usa più così, si ha forse paura che il pubblico si annoi, ad ascoltare soltanto la musica?
Ma torniamo a noi, nelle acque di fronte a Caldora, agitate da una tempesta che rischia di mandare a picco una nave. Sulla riva, il coro dei pescatori, ai quali si unisce un eremita chiamato il Solitario (basso), prega per la salvezza degli sventurati finché i naufraghi riescono a sbarcare a terra. In mezzo a loro ci sono Itulbo (tenore, ma non è quello che ci interessa) e l’eroe Gualtiero (il tenore giusto), che attacca subito a lamentarsi, ce l’hanno tutti con me, pure la tempesta ci voleva.
Scena di Sanquirico per il primo atto alla prima rappresentazione dell’opera.
(Teatro alla Scala, 27 ottobre 1827).
Li raggiunge il Solitario e subito subito si scopre, guarda un po’ che coincidenza, che altri non è che l’antico istitutore di Gualtiero, il quale, disperato per la rovina del discepolo e della sua casata, ha preferito ritirarsi a vita privata e, si suppone almeno, ascetica e, guarda di nuovo che coincidenza, proprio sotto il castello di Caldora.
Lo sventurato eroe gli racconta “Di mia vendetta ho pieno il mondo. Ma indarno (trad.: invano). Il vile Ernesto, il mio persecutor, vive ed esulta… Ma di’, che fa Imogene? Mi è fida ancor?”
Già abbiamo capito com’è la faccenda: Gualtiero smania dal desiderio di vendetta contro questo tal Ernesto, ma è anche innamorato.
Riuscirà a vendicarsi? E Imogene gli è ancora fedele?
Fidelio fedelmente ve lo racconterà la prossima volta.
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