Musica: dissertazioni a cura di Fidelio. “Lucia di Lammermoor”.
Gaetano Donizetti
Lucia di Lammermoor
Catania, Teatro Massimo Bellini, 3-11 dicembre 2013. (Guarda sopra il video della rappresentazione, tratto dal canale Youtube del Teatro).
Lucy Ashton, incisione di H. Robinson.
A questo punto, vista l’attualità della rappresentazione, lasciamo per un attimo il nostro Vincenzo a godersi il successo del Pirata, e parliamo un po’ del suo principale “rivale”, Donizetti, appunto. Anzi il suo assassino, come mi informò una signora incontrata per caso. Inutile farle notare che al momento della morte di Bellini a Parigi il nostro Gaetano si trovava a Napoli; la sua sicurezza restò granitica.
Nascere in un posto piuttosto che in un altro, a parte le diverse caratteristiche personali, può fare una bella differenza anche nel modo di scrivere musica.
Bellini era catanese e quindi era naturale che andasse a studiare a Napoli, dove ricevette un certo tipo di insegnamento che determinò la sua formazione di compositore.
Donizetti era nato a Bergamo, nel 1797. Di famiglia poverissima, come quasi tutti i musicisti dell’epoca, avendo però dimostrato buona disposizione, venne ammesso alle “Lezioni caritatevoli di musica” che teneva Simone Mayr, compositore di origine tedesca trapiantato in Italia, il quale lo mandò poi, di tasca sua, a perfezionarsi a Bologna, sotto la guida di padre Mattei, un famoso insegnante che aveva avuto tra i suoi alunni anche Rossini. Il ragazzo ebbe quindi un accurato insegnamento, sul modello tedesco (soprattutto Haydn e Mozart), anche se nelle sue prime opere è evidente l’influenza proprio di Rossini, il quale aveva peraltro ricevuto gli stessi insegnamenti; tant’è che lo chiamavano “il tedeschino”.
Dotato di una vena musicale estremamente ricca, Gaetano, nel corso di una carriera durata circa ventisette anni – dal giovanile Pigmalione, del 1816, eseguito in realtà solo in tempi moderni, fino al 1843 dell’estremo Dom Sebastien – compose una quantità di musica stupefacente anche per i parametri dell’epoca (quelli a cui Bellini scelse di sottrarsi): settantasei opere liriche, se ho contato bene (il che comportava continui spostamenti da città a città, da uno stato all’altro, trasferendosi anche a Parigi e a Vienna), più di cento composizioni di musica sacra, tra le quali anche una messa di requiem per Bellini, una ventina per orchestra, una marea di brani per voce e pianoforte, mentre all’attività di compositore affiancava quella di direttore musicale.
Inoltre, nel campo operistico spaziò in tutti i generi: dalla farsa al melodramma serio, all’opera comica, all’opera semiseria. Una produzione così immensa, quindi, non è più tanto motivata dalla richiesta dei teatri, quanto da una vera e propria febbre di comporre. E ben aveva appreso a orchestrare in maniera complessa e elaborata; basta ascoltare questa Lucia, il suo capolavoro, insieme con l’Elisir d’amore, per rendersi conto del differente ruolo che assume qui l’orchestra rispetto alle opere belliniane.
Eppure, le carriere dei due corrono quasi parallele ed è interessante notare come quella di Bellini si sia svolta soprattutto nell’Italia del nord, mentre Donizetti abbia a lungo trionfato al San Carlo di Napoli; e per un breve periodo fu anche “maestro di cappella, direttore della musica e compositore delle opere” al Teatro Carolino di Palermo.
A Napoli poté anche assistere alla rappresentazione della belliniana Bianca e Gernando, e pare non le sia stato avaro di complimenti, perché non era una persona invidiosa.
L’epoca in cui i due vissero era la stessa; ed essi condivisero le stesse conoscenze e gli stessi rapporti di lavoro, con l’impresario Barbaja, col librettista Romani, con i cantanti Pasta, Grisi, Tamburini, Lablache, Rubini, Donzelli, chiamati a interpretare le opere ora dell’uno, ora dell’altro.
Nel 1838, rattristato dalla morte dei figlioletti e della moglie, amareggiato dalla mancata nomina a direttore del Real Collegio di Napoli, Donizetti si trasferì a Parigi.
Nella capitale francese il musicista venne colpito da paralisi cerebrale e venne praticamente imprigionato in una casa di cura. Solo dopo molti sforzi i parenti riuscirono a riportarlo a Bergamo, dove si spense nel 1848.
Esiste una fotografia di Donizetti, vecchio e malato; il capo reclinato, il viso gonfio, è un’immagine di una tristezza sconsolante. Preferiamo allora ricordarlo da giovane, un bel ragazzo, pieno della gioia di fare musica.
La caricatura ritrae Donizetti mentre compone un’opera buffa con la destra
e una seria con la sinistra.
Lucia di Lammermoor, composta in poco più di un mese su libretto di Salvatore Cammarano, andò in scena trionfalmente a Napoli nel 1835, il 26 settembre, tre giorni dopo la morte di Bellini, con interpreti principali Fanny Tacchinardi-Persiani e il famoso Gilbert Duprez, quello passato alla storia come inventore del do di petto, cioè senza ricorrere al falsetto (vedi le puntate del ciclo su Bellini, se mi posso citare, dove queste strane parole, e quelle che seguiranno, sono spiegate).
La Tacchinardi e Duprez in ritratti dell’epoca.
E’ tratta da un romanzo dello scozzese Walter Scott, il ‘padre’ del romanzo storico, La sposa di Lammermoor, del 1819. Come sempre, l’opera si distacca ampiamente dal testo letterario, da cui estrae il succo ristrettissimo di amore e di morte, con una spruzzata di odio e di follia. Ci si è vista un’analogia con I Puritani – ancora una volta un parallelo con Bellini – che contiene anch’essa una famosa scena di pazzia. Come già detto altrove, tali scene erano un luogo comune dell’epoca, mentre una grande scena di pazzia (“Al dolce guidami castel natio”) costituiva già il finale della donizettiana Anna Bolena (1830, libretto di Felice Romani), prima che la poveretta perdesse la testa in senso letterale sotto la scure del boia, sistema veloce adottato da quel maniaco del matrimonio di Enrico VIII quando voleva cambiare moglie. E qui si potrebbe obiettare che Bellini la scena di pazzia l’aveva già messa nel Pirata e quindi lasciamo perdere questa discussione inutile.
Ricordo personale: la prima volta, molti anni fa, che ho sentito qualcosa di quella che è poi diventata una delle opere che il vostro Fidelio più intensamente ama, fu ascoltando un tal Raimondo e una tale Emma, in auto durante una passeggiata tra le montagne della Val d’Aosta, cantare, a modo loro, il duetto del primo atto. Eppure, tanto bastò per prendere mentalmente nota di approfondire. E ha approfondito, con l’ascolto dei dischi e col vederla in teatro. Quando la fece qui Mariella Devia il povero Fidelio fu pure rimproverato, per aver espresso il proprio entusiasmo in maniera troppo fragorosa e troppo parziale nei confronti della protagonista.
Basta coi personalismi. E’ chiaro che la protagonista è Lucia, ma il bel tenebroso Edgardo ha uguale peso nel corso dell’opera; e se nei primi due atti non si esibisce mai da solo, ha la sua rivincita nel terzo, il finale, di solito appannaggio del soprano, è tutto suo. Molto importante anche il ruolo del baritono, come sempre un bel cattivone, e non trascurabile quello del basso. Per raccontare la loro storia faremo riferimento – come se la ascoltassimo insieme – a una registrazione in disco e, per colmare i vuoti dovuti ai tagli che di solito si apportano, a un vecchio libretto comprato su una bancarella, costo originario centesimi 50 (di lire), che deve essere appartenuto a un signore reduce da una cocente delusione amorosa, a giudicare dalle parti sottolineate in rosso: “t’amo ingrata, t’amo ancor”, “io dovea da te fuggir” et similia.
Parte prima, “La partenza”.
Un rullo di timpani, qualche colpo di tosse dalla platea, e subito si alzano le brume scozzesi sul brevissimo preludio dell’orchestra. L’azione si colloca, secondo Cammarano, “al declinare del secolo XVI”. Secondo Scott, circa un secolo dopo.
Nei pressi del castello di Ravenswood, Normanno (tenore), capo degli armigeri, e abitanti del castello intonano il coro di introduzione, “Percorriamo le spiagge vicine”. Entra truce Enrico Ashton (baritono), il nuovo padrone, accompagnato dall’istitutore di Lucia, Raimondo (basso), e confida al suo capitano l’ansietà per le sorti della casata e per se stesso, nei rivolgimenti politici del tempo. Solo una mano lo può salvare, aggiunge, ma Lucia, sorella indegna, osa respingere quella mano: cioè rifiuta di sposare il conveniente partito che il fratello vuole imporle.
Raimondo la difende, sostenendo che una brava figliola, che ancora piange la morte della madre, non può pensare all’amore. Quando mai, interviene quel guastafeste di Normanno, Lucia arde d’amore: e racconta che la fanciulla si è appassionatamente innamorata di un giovane che l’ha salvata dall’assalto di un toro infuriato. Ancora più infuriato del toro diventa Enrico quando apprende che il giovanotto in questione altri non è che Edgardo, suo mortale nemico: “Cruda, funesta smania tu m’hai destata in petto!”. E’ un sospetto troppo orribile che si sia innamorata proprio di quello là; come può essere “colma di tanto obbrobrio”, di tanta infamia, una sua sorella, sarebbe meglio se l’avesse colpita un fulmine! Già da questo abbiamo capito che razza di fratellino affettuoso sia Enrico.
http://www.youtube.com/watch?v=tsq8jj07aCc
Invano Raimondo cerca di rabbonirlo, lui non vuol neanche stare a sentire: “Se mi parli di vendetta solo intenderti potrò! Sciagurati, il mio furore su di voi tremendo rugge”, con quel che segue nella bellicosa cabaletta di minacce di sangue, ricompensata da un generoso applauso per la bella uscita del baritono.
Intanto la sciagurata Lucia (soprano), accompagnata dalla sua damigella Alisa (mezzosoprano o soprano), si sta recando quatta quatta all’appuntamento con Edgardo nel parco del castello, presso una fontana. La scena è introdotta da una cascata di arpeggi dell’arpa, liquidi come gli zampilli della fonte.
Compito un po’ iettatorio del mezzosoprano è quello di cercare di distogliere l’eroina da un amore pericoloso. Compito di questa scena è invece farci intendere che quella di Lucia è una mente fortemente turbata.
Ella è infatti angosciata da strane visioni: “Quella fonte, ah!, mai senza tremar non veggo”. Si dice che un tempo vi sia precipitata una donna, uccisa per gelosia da uno dei Ravenswood, ed il fantasma di quella donna le è apparso. E’ qui il caso di precisare che Ravenswood è il casato di Edgardo, al cui padre apparteneva il castello prima che dei suoi possedimenti si impadronisse la famiglia di Lucia, gli Ashton.
Andiamo avanti. Allo stupore di Alisa per quest’affermazione della sua signora, risponde la cavatina del soprano: “Regnava nel silenzio alta la notte e bruna, colpìa la fronte un pallido raggio di tetra luna…”, quando l’ombra le si è mostrata e sembrava che le parlasse, le facesse cenno di seguirla, per poi dileguarsi “e l’acqua pria sì limpida di sangue rosseggiò”. E’ una delle più belle cavatine che si possano ascoltare, a cui segue, dopo il tradizionale invito a desistere da “un amor così tremendo”, l’immancabile rifiuto nella cabaletta: “Quando rapito in estasi… mi giura eterna fe’, gli affanni miei dimentico, gioia diviene il pianto, parmi che a lui daccanto si schiuda il ciel per me”, alla cui espressività nulla tolgono i virtuosismi – ma dipende dall’interprete non farne un vuoto sfoggio di bravura. E stavolta gli applausi sono un vero uragano.
http://www.youtube.com/watch?v=BpJ2u1MiE7E
Lucy Ashton alla fontana, di R. Herdmann
A questo punto arriva il tenore ed Alisa si ritira con discrezione. Edgardo è venuto ad annunciare la sua partenza per la Francia, dove cercherà alleanze politiche per gli scozzesi; prima di partire, però, vuol chiedere a Enrico la mano della sorella.
Lucia lo prega di non farlo, conoscendo bene il fratellino, ed Edgardo capisce perché: “Intendo!”, il persecutore della sua famiglia non è ancora soddisfatto di avergli tolto il padre e i suoi beni, vuole la sua morte. E’ lui ora a infuriarsi: “M’odi e trema. Sulla tomba che rinserra il tradito genitore”, avevo giurato odio eterno ai tuoi, ma poi ho ti visto e per amor tuo ho placato la mia ira; sappi però che quel giuramento potrei ancora compirlo! Lucia lo supplica di calmarsi, di pensare all’amore, che è il più sacro dei giuramenti, ed Edgardo decide allora di scambiarsi subito la loro solenne promessa – “Qui di sposa eterna fe’, qui mi giura al Cielo innante”- suggellandola col dono di un anello.
Sarebbe ora di separarsi, ma prima c’è il famoso duetto di cui sopra ho vantato le bellezze, “Verranno a te sull’aure i miei sospiri ardenti, udrai nel mar che mormora l’eco dei miei lamenti…”. Sarebbe molto più banale dire che quando saranno lontani si penseranno sempre, come senz’altro è più bello dire “ah, talor del tuo pensiero venga un foglio messaggero” che non il prosaico “mi raccomando, scrivimi ogni tanto”.
http://www.youtube.com/watch?v=1JWaAKOBk1w
Parte seconda “Il contratto nuziale”.
In una sala del castello Enrico e il suo tirapiedi Normanno sono assorti in conciliabolo. E’ passato qualche tempo ed Enrico ha organizzato il matrimonio della sorella col ricco e potente Arturo, anzi stanno già per arrivare gli invitati.
Ma se Lucia si ostinasse nel suo rifiuto? Non ti preoccupare, gli risponde il suo complice, Edgardo ormai manca da un bel po’ e noi abbiamo intercettato le sue lettere; se le facciamo credere che si è innamorato di un’altra, Lucia si rassegnerà.
Normanno viene spedito incontro allo sposo ed entra Lucia, pallida e con l’aspetto sofferente. L’ipocrita si mostra stupito di vederla così poco allegra nel giorno delle nozze. Drammatica e appassionata la risposta di lei: “Il pallor funesto, orrendo, che ricopre il volto mio” dovrebbe farti capire quanto soffro. Lui risponde serafico di aver avuto ragione a essere spietato; e poi, dai, non pensiamo più al passato, io non ce l’ho con te – fa pure la parte di quello che generosamente perdona – e tu finiscila con questo “insano amor”, ti ho procurato un marito bello ricco e malandrino (così si diceva una volta da queste parti).
Lucia ribadisce fermamente che il “nobil sposo” non le interessa perché “ad altr’uom giurai la fe’”; è quindi il momento di tirar fuori una falsa lettera, in cui si dice che Edgardo l’ha dimenticata. Povera Lucia! “Me infelice! Ah, la folgore piombò! Soffriva nel pianto, languia nel dolore… Quel core infedele ad altra si dié”. E il perfido rincara la dose, senti cosa può dire alla sua sorellina, quel caino: “Un folle t’accese, un perfido amore, tradisti il tuo sangue pel vil seduttore, ma degna del Cielo ne avesti mercé, quel core infedele ad altra si dié” e ben ti sta.
Già un suono di trombe annuncia l’arrivo dello sposo. Più che pensare a sposarsi, Lucia vorrebbe morire; e il fratello allora la incalza, la mia parte politica è sconfitta, tu devi salvarmi: “Se tradirmi tu potrai, la mia sorte è già compita… tu la scure appressi a me… nei tuoi sogni mi vedrai… quella scure sanguinosa sarà sempre innanzi a te”. A Lucia non resta che invocare la pietà divina.
In una scena che i miei dischi saltano si capisce che ad accettare il matrimonio la convince poi Raimondo, sia pure con le migliori intenzioni.
Lo sposo ha intanto fatto il suo ingresso, salutato dal coro degli invitati, “Per te d’immenso giubilo tutto s’avviva intorno”.
Arturo (tenore) si presenta con una certa aria di importanza e di degnazione che ce lo rende antipatico: “Per poco tra le tenebre sparì la vostra stella, io la farò risorgere più fulgida, più bella. La man mi porgi, Enrico… a te ne vengo amico, fratello e difensor”. Chiede poi della sposa; Enrico mette le mani avanti, spiegando che gli sembrerà triste, ma solo perché piange ancora la “madre estinta”. Sì, lo so, risponde l’ingenuo Arturo; però, cos’è quella storia che ho sentito di lei con Edgardo? A togliere Enrico dall’imbarazzo di rispondere è l’arrivo di Lucia.
Tra i tentativi non raccolti di fare il galante da parte di Arturo e i sibili di avvertimento di Enrico, l’infelice firma il contratto di nozze (“La mia condanna ho scritta”). E proprio in tal punto la porta si spalanca e irrompe, “con atteggiamento terribile”, Edgardo, giunto ahimè troppo tardi. Il meno che possa fare Lucia è svenire.
Un attimo di silenzio, che esprime la sorpresa e il timore degli astanti, e poi si alza la voce di Edgardo: “Chi mi frena in tal momento, chi troncò dell’ira il corso? Il suo duolo (di Lucia), il suo spavento son la prova di un rimorso. Ma qual rosa inaridita ella sta tra morte e vita; io son vinto, son commosso, t’amo, ingrata, t’amo ancor!”, mentre alla sua si unisce la voce di Enrico (“Chi rattiene il mio furore”), poi quella di Lucia (“Io sperai che a me la vita tronca avesse il mio spavento, ma la morte non m’aita”) e quelle di tutti gli altri (“Qual terribile momento”).
E’ questo uno dei punti culminanti dell’opera; e il pubblico lo apprezza talmente che, a furor di popolo, ne viene concesso il bis.
http://www.youtube.com/watch?v=zv79r-rp6Oo
Tuttavia bisogna proseguire. Enrico, Arturo, Normanno e tutti i presenti si scagliano contro Edgardo, che sguaina a sua volta la spada. Che passino a vie di fatto è impedito solo dall’intervento di Raimondo, “Rispettate, o voi, di Dio la tremenda maestà… deponete l’ira e il brando…”.
Edgardo rivendica il suo diritto, poiché Lucia gli aveva giurato fedeltà; Raimondo gli dice che se la può scordare, mostrandogli il contratto già firmato. Il giovane legge e poi si accosta a lei, chiedendo “Son tue cifre? (trad.: è la tua scrittura?) A me rispondi”. La risposta di Lucia non è che un gemito, ma basta a scatenare l’ira di Edgardo, che strappa all’infelice l’anello che lei ancora portava, “Hai tradito il Cielo e amor! Maledetto sia l’istante che di te mi rese amante, stirpe iniqua, abbominata, io dovea da te fuggir!”. E la scenataccia si conclude coi cattivi che lo cacciano via, lui che li sfida a ucciderlo, Lucia, disperata, che prega per lui, mentre Raimondo e Alisa, unici pietosi, lo invitano con gentilezza ad andarsene. Applausi. Sipario.
Parte seconda, secondo atto.
Spesso non vengono eseguite le prime due scene, in cui Enrico si reca, in una notte opportunamente buia e tempestosa, alla diroccata dimora di Edgardo per sfidarlo a duello. L’appuntamento è all’alba, presso le tombe dei Ravenswood.
Passiamo quindi alla scena successiva, di nuovo nel castello, dove gli invitati stanno festeggiando le nozze (“Di vivo giubilo s’innalzi un grido). Ma tanta esultanza è bruscamente interrotta da Raimondo: “Ah, cessate quel contento…”. Non c’è niente da festeggiare.
“Dalle stanze ove Lucia tratta avea col suo consorte, un lamento, un grido uscia”. Il brav’uomo si era precipitato a vedere e aveva trovato Arturo a terra, e Lucia che, stringendo ancora la spada insanguinata, gli aveva chiesto dove fosse il suo sposo, quello vero, quello che lei voleva. “Infelice! della mente la virtude a lei mancò”.
Ben diverso e pieno di sgomento ora risuona il coro: “Oh, qual funesto avvenimento… Ah, quella destra di sangue impura l’ira non chiami su noi del Ciel”.
Ed ecco Lucia, “succinta e in bianca veste… Il di lei sguardo impietrito, i moti… manifestano non solo una spaventevole demenza, ma ben anco i segni di una vita che già volge al suo termine”. E’ la grande scena della pazzia, introdotta dal flauto, che dialogherà con la voce fino a confondersi con essa.
“Il dolce suon mi colpì di sua voce… Edgardo, io ti son resa, fuggita io son dai tuoi nemici… Presso la fonte, meco t’assidi alquanto…”, delira Lucia, tra la dolcezza dell’illusione e il subitaneo terrore: “Ahimè, sorge il tremendo fantasma e ne separa”, tornando poi a sognare le nozze tanto desiderate: “Qui ricovriamo, Edgardo, ai pie’ dell’ara. Sparsa è di rose… O gioia che si sente e non si dice! Ardon gli incensi, splendon le sacre faci, ecco il ministro! Porgimi la destra… Alfin son tua”.
Ma l’illusione non dura a lungo, Lucia sente che la vita ormai le sfugge. “Spargi d’amaro pianto il mio terrestre velo, mentre lassù dal cielo io pregherò per te. Al giunger tuo soltanto fia bello il ciel per me, ah, sì…”. E’ inutile cercare di spiegare quale prodigio di abilità tecnica, di partecipazione interpretativa, di accenti sublimi siano necessari per rendere la bellezza di questa scena. Basti dire che per tutta la sua lunga durata non un solo rumore, un solo sospiro si sente giungere dal pubblico, ipnotizzato, letteralmente incapace di distogliere l’attenzione dalla bianca figura sulla scena e dall’incanto della sua voce, fino all’interminabile, liberatorio applauso.
http://www.youtube.com/watch?v=-MSsi-iysCA
Ma tutto finisce; Lucia si accascia svenuta e viene portata via.
E’ l’alba. Edgardo attende l’arrivo di Enrico per battersi con lui, ma suo unico desiderio è ormai ricongiungersi ai propri avi, mentre ingiustamente immagina che Lucia rida “accanto al felice consorte”.
“Tombe degli avi miei, l’ultimo avanzo di una stirpe infelice raccogliete voi… Tra poco a me ricovero darà negletto avello… Tu pur, tu pur dimentica quel marmo dispregiato, mai non passarvi o barbara del tuo consorte a lato…”.
http://www.youtube.com/watch?v=EG1D_zPG1iE
Un coro dolente di abitanti del castello lo distoglie dal piangersi addosso; è Lucia da piangere, Lucia che muore e invoca solo lui. Edgardo si precipita, sperando di poterla rivedere un’ultima volta, ma Raimondo lo ferma: “Ove corri, sventurato? Ella in terra più non è”.
“Edgardo si caccia disperatamente le mani nei capelli… colpito da quell’immenso dolore che non ha più favella”, ci dice Cammarano. Poi però la favella la ritrova: “Tu che a Dio spiegasti l’ale, o bell’alma innamorata… Se divisi fummo in terra, ne congiunga un Nume in Ciel”.
Troppo tardi cercano di fermarlo: Edgardo si è già pugnalato e spira, invocando ancora la sua Lucia.
Una vera tragedia, no? Ma un vero capolavoro.
Nel testo abbiamo seguito una registrazione effettuata nel lontano 1955, a Berlino. Interpreti: Maria Callas, lei che rovesciò il modo di interpretare il personaggio, dandogli la sua potente carica di drammaticità; il nostro Pippo Di Stefano, Edgardo; il valente Rolando Panerai, Enrico; e, anche lui applaudito nonostante l’orribile pronuncia, Nicola Zaccaria, Raimondo. Coro del Teatro alla Scala e RIAS Sinfonie-Orchester Berlin diretti da Herbert von Karajan. E l’emozione è ancora viva.
Gli ascolti che vi suggerisco però, per motivi tecnici, si riferiscono ad altre interpretazioni.
La compagnia di canto delle recite del ’55 a Berlino, insieme con l’ambasciatore italiano.
Credo che sia opportuno rifarci al romanzo di Scott per capire un po’ meglio la vicenda.
Edgardo è dunque l’ultimo discendente di una nobile famiglia, che ha perduto i suoi averi a causa dell’imprudenza politica del padre del nostro eroe, da una parte; dall’altra, per i maneggi legali, ma non del tutto legittimi, del Lord Cancelliere, sir William Ashton, un avvocato di recente nobiltà sposato a una donna di più illustri natali che lo domina completamente, e padre di tre figli: l’altero colonnello Sholto Douglas Ashton, Lucia e un ragazzino di nome Enrico, scomparso nell’opera avendo ceduto il nome al fratello maggiore.
A Edgardo, dopo lunghe controversie legali che hanno portato il padre a morire di crepacuore, resta solo il titolo formale di signore di Ravenswood (“L’onorevolissimo Edgardo lord Ravenswood”, sottolinea il suo servo Caleb, difensore dell’onore della casata), ma il castello e tutte le proprietà, tranne la cadente torre di Wolf”s Crag, dove egli vive in povertà, sono passate agli Ashton. Per vendicare il padre egli quindi giura vendetta su coloro che ritiene responsabili della sua morte.
Lucia è una ragazzina diciassettenne, romantica e dolce, che si innamora del fiero cavaliere che l’ha salvata, ma non riesce a resistere alle pressioni della madre. La vera cattiva è infatti l’orgogliosa e dura Lady Ashton, a cui si allea il figlio maggiore, che compare però solo verso la fine della vicenda.
La premiata ditta Cammarano/Donizetti elimina una buona parte della storia e un bel numero di personaggi, facendo morire papà e mammà, riducendo al minimo l’importanza di Bucklaw – cioè Arturo – e dando maggior peso ad Enrico e a Raimondo. Tra l’altro, nel romanzo Bucklaw sopravvive alle ferite, sulla cui natura è meglio non indagare. Edgardo, eroe romantico e un po’ maledetto, muore invece sprofondando nelle sabbie mobili mentre galoppa al duello con Sholto/Enrico.
Ultima noticina, nel capolavoro di Flaubert, Madame Bovary, la protagonista Emma va a teatro proprio a vedere una Lucia: “A sinistra c’era una fontana ombreggiata da una quercia … Ella (Emma) si ritrovava nelle letture della sua giovinezza, in pieno Walter Scott … Si lasciava cullare dalle melodie, si sentiva vibrare in tutto il suo essere … Ma una giovane si fece avanti … e allora si udì un flauto …”.
Il vostro Fidelio vi lascia. La prossima volta ritorniamo a Bellini.
A eccezione della foto con la Callas, tratta dal libretto allegato ai Cd dell’edizione citata, le immagini sono quelle del programma di sala del Teatro Massimo Bellini, stagione lirica 2001-2002.
I testi
Walter Scott, La sposa di Lammermoor (The bride of Lammermoor), trad. di Bice Onofri,
Garzanti, 1982.
Gustave Flaubert, Madame Bovary, trad. di Ottavio Cecchi, Newton Compton, 1995.
Alcune tra le opere di Donizetti
L’aio nell’imbarazzo o Don Gregorio, opera buffa, 1824
Le convenienze e inconvenienze teatrali, farsa, 1827
Anna Bolena, opera seria, 1830
L’elisir d’amore, opera comica, 1832
Lucrezia Borgia, opera seria, 1833
Maria Stuarda, opera seria, 1834
Marin Faliero, opera seria, 1835
Lucia di Lammermoor, opera seria, 1835
Roberto Devereux, opera seria, 1837
Poliuto, opera seria, 1838
La fille du Régiment, opera comica, 1840
La favorite, opera seria, 1840
Don Pasquale, opera buffa, 1843
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