Ma Bellini si chiamava Massimo?
1 Da Catania verso Napoli
L’eruzione dell’Etna del 1669, in una stampa settecentesca del Saint-Non,
ripresa da Catania dei Vicerè, Alma Editore
Questo mi toccò di sentire passando davanti al teatro a lui intitolato dalla innocente bocca di una ragazza che aveva appunto letto il cartello “Teatro Massimo Bellini”. Si vede che da piazza Stesicoro non era passata mai. Ahimè, e non era di Timbuctu, era di Catania, dove si suppone – a torto – che tutti di lui conoscano vita morte e miracoli (almeno tre ne ha fatti).
Il monumento di Bellini a Piazza Stesicoro. Il nome giusto c’è scritto. (foto Fidelio)
Per non parlare di un tale che, richiesto di citare almeno un’opera sua, rispose “la Villa Bellini”. E ne potrei raccontare ancora, ma taccio per carità di patria.
Mi pare allora che sia proprio il caso di parlare del nostro cosiddetto cigno, Vincenzo. Possiamo cominciare facendo una passeggiata a piedi, partendo dal centro.
Alle nostre spalle c’è il Duomo, vera epitome della storia della città, con la sua bianca facciata barocca; ma dietro restano ancora salde le absidi normanne, nere di lava, e sotto le terme romane e chissà cos’altro. Era, in origine, una ecclesia munita, una chiesa fortificata, perché allora sorgeva sul mare, esposta agli assalti.
La facciata settecentesca del Duomo (foto Fidelio)
A sinistra, c’è la porta che reca ancora il nome dei viceré spagnoli – gli Uzeda a cui ha rubato il nome De Roberto per i suoi Viceré – e quindi il palazzo dei Chierici e la fontana alimentata dal fiume sotterraneo, l’Amenano, raffigurato in forma di giovane dio, detta “acqua a linzolo” perché scende giù larga come un lenzuolo steso, per poi perdersi nuovamente sottoterra.
La Fontana dell’Amenano. (foto Fidelio)
Un breve saluto all’elefante simbolo della città e imbocchiamo quella che adesso si chiama via Garibaldi, e che un tempo si chiamava Via San Filippo, prima, e poi Via Ferdinandea, percorrendola tra palazzi nobiliari, tutti fioriti di pietra. E’ notte e non ci sono automobili a disturbarci, Catania si riprende il suo fascino di città settecentesca.
La settecentesca Porta Uzeda (Foto Fidelio)
Lontana davanti a noi si scorge la porta chiamata anch’essa Ferdinandea, ma noi giriamo a destra e subito ci troviamo in piazza San Francesco. Sforziamoci di ignorare la bruttezza imbarazzante del monumento al cardinale Dusmet, non c’entra niente in tale contesto.
A destra invece la chiesa di San Francesco all’Immacolata, col suo scalone; a nord, davanti a noi, l’arco che sovrasta l’accesso alla via dei Crociferi, fiancheggiata da chiese e conventi. A sinistra, il palazzo Gravina Cruyllas ci nasconde la vista del teatro greco-romano.
In quel palazzo tre misere stanzette ospitavano un tempo la famiglia Bellini.
Un tal Vincenzo Tobia Bellini era arrivato dal suo paesello abruzzese, Torricella Peligna, nella nuova Catania risorta dalle macerie del terremoto che l’aveva distrutta nel 1693, e vi aveva trovato impiego di musicista presso il principe di Biscari, un nobile illuminato che nel suo palazzo – è ancora lì, prospiciente la marina – volle pure un museo e un teatro.
La facciata di Palazzo Biscari. (foto Fidelio)
Nella città ai piedi dell’Etna – il Mongibello, Mons-Gebel, la montagna-montagna in latino e in arabo, semplicemente la Montagna per chi abita ai suoi piedi – Vincenzo senior affondò le radici, sposò una catanese e ne ebbe tra l’altro un figlio di nome Rosario, anch’egli musicista seppure, dicono, di minor levatura. Questi a sua volta sposò Agata Ferlito, nome che più catanese non si può, anche se pare avesse capelli biondi e occhi azzurri; d’altra parte, i normanni in Sicilia non erano certo restati con le mani in mano.
Particolare delle absidi normanne del Duomo. (foto Fidelio)
Da questa unione nacquero ben sette figli, ma a noi interessa solo il primogenito, che venne al mondo nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1801 e che venne poi battezzato nella vicina chiesa di San Francesco Borgia con i nomi di Vincenzo, Salvatore, Carmelo e Francesco.
Ben presto il piccolo Vincenzo iniziò gli studi musicali con il padre, passando poi sotto la tutela del nonno (“Mio nonno, Vincenzo Bellini, il quale studiò nel Conservatorio di Napoli sotto il grande Piccinni, mi diede i primi elementi della composizione”).
Pare che il suo esordio risalga a quando aveva sei anni, con il mottetto ora perduto Gallus cantavit; la sua prima produzione è infatti costituita per la maggior parte da musiche sacre, come richiedeva la committenza del tempo. Vi si aggiungono canzoncine, brevi brani strumentali e, parecchio più tardi, ariette, alcune sinfonie, un concerto per oboe ( le sinfonie per grande orchestra e il concerto in mi bemolle maggiore sono databili al 1823).
Se volete ascoltare il concerto nell’interpretazione di Heinz Holliger, diretto da Eliahu Inbal, cliccate il link seguente
http://www.youtube.com/watch?v=XWfHcq7qttY
Ma non corriamo avanti. Poco sappiamo di infanzia e adolescenza, nonostante le leggende fiorite al riguardo, alcune vere fanfaluche, secondo me: cantante a 18 mesi, direttore d’orchestra a tre anni, dongiovanni a 10, studioso di tutto lo scibile umano – e le lezioni chi gliele pagava? Certe sue biografie, insomma, sembrano scritte come le agiografie dei santi.
Ritratto di Bellini fanciullo, di Federico Maldarelli (Museo Civico Belliniano – Catania)
Quel che è certo è che nel 1819, per interessamento del duca di Sammartino, il Decurionato catanese – cioè il governo della città – apprezzati i meriti del nonno e del padre e riconosciuto “genio e vivacità nel ricorrente”, concesse al giovane un sussidio di 36 onze annue per quattro anni, che gli consentì di trasferirsi a studiare a Napoli, capitale del Regno, presso il Real Collegio di San Sebastiano.
Conclusi gli studi, Vincenzo sarebbe dovuto tornare a Catania, a rivestire l’incarico di organista in qualche chiesa.
Non andò così. E il vostro Fidelio, che per voi si è pure improvvisato fotografo, ve lo racconterà nella prossima puntata.
Catania e l’Etna in un’incisione di W. Floyd
da “The Classic Lands of Europe embracing Italy, Sicily…” di Sherer (Londra 1845)