Giuseppe Verdi: Un ballo in maschera.
Catania, Teatro Massimo Bellini, dal 19 al 30 gennaio 2013
Parma, Teatro Regio, dal 12 al 27 gennaio 2013
Roma, Auditorium Parco della musica, dall’8 al 12 giugno 2013
(in forma di concerto)
Milano, Teatro alla Scala, dal 9 al 25 luglio 2013
Divagazione in 3 parti:
1. Un Verdi alquanto insolito.
2. La trama e qualcosa in più.
3. La rappresentazione catanese.
1. Un Verdi alquanto insolito.
Verdi riceve le modifiche al libretto. Caricatura di Melchiorre Delfico, tratta dal libretto di sala del Teatro Massimo Bellini, edizione 2005 dell’opera.
Insolito per vari motivi. Non certo insoliti i guai con l’occhiutissima censura, che interveniva a discettare anche sull’uso delle virgole. D’altra parte, come si poteva permettere la rappresentazione scenica di un regicidio (quello del re Gustavo III di Svezia, avvenuto nel 1792), in un periodo in cui tale attività era pericolosamente di moda? tanto per fare un esempio, l’attentato di Felice Orsini a Napoleone III, o Napoleone il piccolo, come lo chiamava Victor Hugo, risale al 1858.
E quindi la nostra opera, che era stata commissionata dal San Carlo di Napoli, dopo vari tentativi di modificare, anzi di snaturare completamente la vicenda ambientandola nei luoghi (la Pomerania? e dov’è?) e nei periodi (nel Medioevo) più vari, si ritrovò nel 1859 sul palcoscenico del Teatro Apollo di Roma, con Gustavo trasformato nel conte Riccardo, governatore della colonia inglese di Boston, verso la fine del 1600, anche se l’atmosfera è decisamente settecentesca. Un semplice conte, a quanto pare, lo si può ammazzare, purché lontano dall’Europa e non per motivi politici.Un cavilloso potrebbe anche osservare che tale collocazione geografica appare un po’ strampalata: non l’avevano fondata i puritani Boston? Non erano tipi da balli e tanto meno in maschera; ma non ha nessuna importanza, in realtà l’opera potrebbe essere ambientata ovunque, forse anche in Pomerania – ma sicuramente non nel Medioevo o sarebbe un’altra opera.
Perché insolito, allora?
Vediamo. Il nostro Giuseppe nazionale aveva già alle spalle un bel po’ di onorata carriera, aveva superato i cosiddetti “anni di galera” ed era un musicista affermato, avendo già composto, tra il 1851 e il 1853, la “trilogia popolare”: Rigoletto, La traviata, Il trovatore. Era stato accolto all’Opéra di Parigi con Les vépres siciliennes, il che voleva dire avere da vedersela col pubblico francese avvezzo ai modi del grand opéra, ben diverso dal melodramma italiano. E stava cercando un linguaggio musicale nuovo, per il quale gli servivano argomenti che si discostassero dai soliti cliché e gli fornissero spunto per scene di grande potenza drammatica. Vedi appunto Rigoletto, con un buffone gobbo per protagonista, mentre il tenore, invece di fare l’innamorato (anzi lo fa troppo), è un vero mascalzone; vedi la Violetta di Traviata, la donna perduta che mette a nudo l’ipocrisia della brava borghesia benpensante. Persino nel Trovatore, la più tradizionale delle tre, l’interesse del compositore era maggiormente concentrato sul personaggio della zingara Azucena, un’altra creatura emarginata e “diversa”.
Aveva inoltre composto il Simon Boccanegra, altra opera fuori dagli schemi e infatti non ebbe successo; rifatto lo Stiffelio – che il pubblico catanese avrà modo di conoscere nel prossimo ottobre – trasformandolo in Aroldo; e stava accarezzando l’idea di porre in musica il Re Lear, tornando all’amato Shakespeare dopo il Macbeth dell’ormai lontano 1847. Ma la storia del re di Britannia restò nel cassetto e, dopo varie ricerche, Verdi si decise per un libretto composto dallo stesso Scribe dei Vèpres per Auber, che già aveva fornito materiale, tra gli altri, anche a Saverio Mercadante; e ci aveva fatto un pensierino anche Bellini.
La stesura del nuovo testo venne affidata ad Antonio Somma, il quale mise subito le mani avanti esigendo che il libretto non recasse l’indicazione dell’autore; più tardi, dopo tanti rimaneggiamenti e riscritture e pasticci, avrebbe addirittura desiderato che risultasse opera di qualcun altro!
Siamo dunque molto lontani dalla foschissima tragedia di Lear (non ce ne resta uno vivo, lì); qui si tratta, ed è inutile andare a cercare improbabili sottintesi politici, patriottici etc., del solito triangolo “tenore ama il soprano e baritono non vuole”; e non avrebbe neanche tutti i torti, dato che in questo caso è il legittimo consorte.
Non è neanche grandissima novità l’uso del leit-motiv , qui solo un tema ricorrente per richiamare certe situazioni, un uso ben diverso da quello che ne farà Wagner (a proposito, anche lui è nato nel 1813; non ce ne importa niente? niente).
Consideriamo anche l’intento di liberarsi dalla tirannia del pezzo chiuso; certo però, anche qui ci sono arie, cori, duetti, terzetti e così via, solo il secondo atto scorre tutto ininterrotto. E come scorre!
La vera differenza, la novità nel linguaggio musicale verdiano, come hanno sottolineato tutti i musicologi del mondo, sta in un nuovo tocco di eleganza e di leggerezza, del tutto inconsueto per il bussetano e forse appreso, oltre che con la maturità, anche grazie al soggiorno in terra di Francia; lui stesso definiva Riccardo un personaggio “tagliato alla francese”.
Leggerezza nel senso migliore, non come superficialità, ma come un sorriso che rischiara la vicenda… seppur non sempre. Chiamiamola levità.
Riccardo, appunto, appare quasi un ragazzone, pronto agli scherzi, ai travestimenti e a cacciarsi nei guai; ma è anche un governante benevolo e un uomo magnanimo, capace di sentimenti profondi, ben diverso dal Duca di Mantova, non ci può essere dubbio che è veramente innamorato di Amelia, lo dice la musica.
Quello però che ha fatto maggiormente pensare ad un Verdi mozartiano è il personaggio del paggio Oscar, ruolo, come si dice, en travesti, cioè interpretato da una donna, come il delizioso Cherubino delle Nozze di Figaro, che a sua volta, parecchi anni dopo (1911), darà vita all’Octavian del Rosenkavalier di Richard Strauss.
Questa leggerezza la possiamo seguire passo passo in tutta l’opera, dal primo intervento di Oscar, “Volta la terrea”, all’appuntamento dato da Riccardo “Alle tre”, a ritmo quasi di can can; nella canzone marinara “Di’ tu se fedele” e nella successiva “E’ scherzo od è follia” dello stesso Riccardo; si vena di ironia nella risata dei congiurati del secondo atto; ritorna nel terzo con Oscar che porta l’invito al ballo e soprattutto col suo “Saper vorreste”, che prelude alla tragedia finale.
Perché tutta l’opera è fatta di contrasti: contrasto di situazioni, contrasto di sentimenti nell’animo dei tre protagonisti principali. E sempre, come Mozart, mescolando gli stili, nell’alternanza di scene intensamente drammatiche, di squarci lirici, di atmosfere cupe, fondendo intimamente musica e dramma e con una ricchezza orchestrale e una varietà di motivi musicali da farmi ritenere – e non certo solo a me – di trovarci di fronte a un vero capolavoro.
Inutile che mi rinfacciate l’assurdità di certi versi e l’inverosimiglianza delle situazioni. Si sa che i libretti d’opera, genere a parte, sono scritti in una lingua che nessuno ha mai parlato. La stessa cosa, mutatis mutandis, vale per le tragedie di Alfieri, per le poesie di Leopardi, per non parlare delle traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea di Monti e di Pindemonte: bisogna ritradurle in italiano.
La differenza è che Somma – o chi per lui – non era Leopardi.
Inoltre Verdi metteva mano spesso anche nei libretti e non avrebbe mai accettato, nella sua ricerca della “parola scenica”, qualcosa che non servisse bene la sua musica: e qui il taglio delle scene e l’andamento dei versi, anche se è esagerato l’uso di espressioni antiquate e di costrutti sintattici più contorti del labirinto di Creta, sono perfettamente funzionali all’azione drammatica.
Vale quindi la pena di andarlo a vedere questo Ballo, se se ne ha l’occasione.
Per chi non conoscesse già l’opera, potrà essere utile leggere la trama qui di seguito e cercare di fare qualche ascolto, magari frugando su Youtube.
As for me, che non a caso mi chiamo Fidelio, il top è sempre la Callas, anche se alcuni dicono che non avesse voce verdiana (che sarà mai?) e mancasse di sensualità; ma si può essere appassionati senza essere sensuali.
Ascoltatela dunque nella registrazione dal vivo del 1957 al Teatro alla Scala, con il nostro Pippo Di Stefano che, con tutti i suoi difetti, resta un grande, il bravo Ettore Bastianini come Renato, Giulietta Simionato come Ulrica e la direzione di Gianandrea Gavazzeni – e scusate se è poco.
Laudator temporis acti, direte voi. Sì, sì, amo e lodo il tempo passato e non me ne vergogno neanche.
Nella foto: frontespizio dello spartito Ricordi, British Library Londra, tratta dal libretto di sala del Teatro Massimo Bellini, edizione 1995 dell’opera.
2. La trama e qualcosa in più.
A inizio dell’opera il preludio orchestrale, in cui si avvertono alcuni dei temi musicali che ricorreranno nel corso della vicenda: il tema d’amore di “La rivedrà nell’estasi”, che si intreccia con la musica che accompagnerà i congiurati, affidata agli strumenti di suono grave e di tono quasi caricaturale.
Atto I, primo quadro.
Nella residenza del governatore, il coro di ufficiali e gentiluomini attende lietamente l’arrivo del conte; tra essi si mescolano però Samuel e Tom (bassi) con i loro accoliti, che lo odiano e tramano per ucciderlo. Entra Riccardo (tenore), annunciato dal suo paggio Oscar (soprano), esprimendo sentimenti di pietà e di giustizia: è il riflesso dell’ideale settecentesco del sovrano illuminato. Il governatore è infatti abbastanza amato, per la sua benevolenza verso il popolo. E’ però di carattere un po’ troppo zuzzurellone; appunto si distrae subito dalle faccende di governo quando Oscar gli porge l’elenco degli invitati a un ballo mascherato. Tra questi v’è anche il nome della donna segretamente amata, senza averglielo neanche rivelato, Amelia, e il galante conte attacca subito con “La rivedrà nell’estasi”. Ma chi la rivedrà? Non ci confondiamo subito, parla in terza persona perché il soggetto è la sua anima, “in lei rapita”.
Ora, mi vien fatto di dire, il libretto di Somma è, per chi non lo sapesse, tra i più vituperati della storia del melodramma, ma io non mi sento di associarmi del tutto a questa condanna: “O dolce notte scendere tu puoi, gemmata a festa”, per esempio, non è male.
Entra adesso un altro personaggio, Renato (baritono), segretario e amico del governatore. Vedendolo turbato, crede di capire che lo preoccupi la congiura che si sta tramando. Non sa quanto si sbaglia: infatti Amelia è proprio la moglie del fedele amico; un classico, direi.
Riccardo, compreso con sollievo l’equivoco, afferma di disprezzare i suoi nemici e non vuol neanche conoscerne i nomi, per non essere costretto a “contaminarsi” col loro sangue. Lo proteggeranno Dio e l’amore del suo popolo. Giustamente Renato gli fa notare (“Alla vita che t’arride”) che dell’ “amor più lesto è l’odio le sue vittime a colpir” e gli rammenta il suo compito di governante, responsabile di “altre mille e mille vite”.
Il conte passa quindi a svolgere le sue funzioni: una donna negra, Ulrica (il nome soffre dell’origine svedese), è accusata di avere commerci con il diavolo in persona. Il paggio Oscar ne prende però le difese, con la citata canzone “Volta la terrea fronte alle stelle… quando alle belle il fin predice, mesto o felice, del loro amor!”. Spinto dal suo carattere un po’ incosciente, Riccardo decide di recarsi lui stesso, travestito, a scoprire se la donna è da condannare. Invano Renato cerca di farlo ragionare, ci si vede tutti alle tre da Ulrica.
Atto I, secondo quadro.
Siamo dunque nell’antro dell’indovina (contralto), che, circondata dai suoi clienti immersi in un superstizioso timore, si esibisce in una tenebrosa invocazione al demonio, “Re dell’abisso”.
La interpella un marinaio, Silvano (basso): per quindici anni è stato al servizio del conte, vuol sapere la sua sorte. Ulrica gli predice che presto sarà ricompensato e Riccardo, che ha udito tutto, provvede a stilare lì per lì un brevetto da ufficiale e a infilarlo di soppiatto, insieme a una borsa di denaro, in tasca a Silvano, che ben presto li trova. Acclamazioni generali per una profezia così subitamente avverata.
Un servo intanto annuncia che una dama vuol consultare l’indovina in segreto; tutti tranne Riccardo che, avendo riconosciuto nell’uomo un domestico di Amelia, si nasconde per ascoltare.
Ed eccola, Amelia (soprano), come trasportata dalle note dell’orchestra. Quello che chiede è un rimedio che le strappi dall’anima un amore colpevole, perché anche lei è innamorata di Riccardo. Spaventoso il consiglio dell’indovina, recarsi “della città all’occaso”, a occidente della città, nel luogo dove avvengono le esecuzioni, di notte, per cogliere un’erba portentosa. Trema, al sol pensiero, Amelia, ma è decisa a farlo; però, “Non sola”, si propone Riccardo dal suo nascondiglio. E’ infatti convenzione comune, anche nel teatro di prosa, che lo spettatore dalla sua poltrona possa distintamente udire quello che invece non odono gli altri personaggi che sono lì a due passi. Ma qui c’è la commovente preghiera di Amelia, “Consentimi Signore, virtù ch’io lavi il core”, alla quale si mescolano le altre voci (e quanto è bello tutto ciò).
Amelia è fuggita via e sono sopraggiunti, anch’essi travestiti, i cortigiani. Riccardo si è rapidamente (forse troppo rapidamente) ripreso dall’emozione nello scoprire di essere riamato e il suo spirito estroso gli suggerisce allora uno scherzo: anche lui consulterà l’indovina, fingendosi un pescatore, con la canzone “Di’ tu se fedele il flutto mi aspetta”. Ma Ulrica ne sa più di quanto si creda e predice allo sconosciuto che presto morrà, ucciso da chi per primo gli stringerà la mano. E’ incredulo il conte, “E’ scherzo od è follia siffatta profezia” si chiede ridendo. Si intrecciano ora le voci di cinque personaggi che esprimono i loro diversi stati d’animo: l’allegro scetticismo del conte, la preoccupazione di Samuel e Tom che si temono scoperti, l’interrogarli di Ulrica che nota come essi non ridano affatto e su tutte la limpida voce del paggio che teme per il suo signore, mentre anche la voce di quest’ultimo, nella ripresa, sembra perdere la sua baldanza, come contagiato da tale timore.
Offre poi in giro la destra, ma nessuno si azzarda a toccarla: sarà invece Renato, sopraggiunto in quell’istante e ignaro di tutto, a prenderla nella sua.
Ma che oracolo, che strega, non ne hai azzeccata una, neanche che ti volevano condannare, esulta Riccardo, e questo è il mio migliore amico!
Ma intanto il governatore è stato riconosciuto e viene acclamato dal popolo, guidato dal riconoscente Silvano.
Atto II.
“Campo solitario nei dintorni di Boston”. L’orchestra crea il clima di orrore dell’infame luogo, ma riprende anche il tema di “Consentimi o Signore”. Ed ecco giungere tremante la donna, che manifesta la sua angoscia nel recitativo “Ecco l’orrido campo”, per poi scivolare nell’aria “Ma dall’arido stelo”, che tocca il cuore quando ella si chiede “che ti resta perduto l’amor, che ti resta, mio povero cuor?”.
Da lontano si odono i rintocchi della mezzanotte e la poveretta, sovreccitata dalla fifa, vede innanzi a sé una testa che la guarda terribile, “Deh, mi reggi m’aita Signor, miserere d’un povero cor!”.
Col sopraggiungere di Riccardo comincia il grande duetto che mi ostino a chiamare d’amore (per la nota polemica vedi la terza parte delle mie divagazioni), il più bello che Verdi abbia mai scritto; dovranno passare molti anni per arrivare a quello tra Otello e Desdemona (“Già nella notte densa”), Otello è del 1887.
Amelia implora “Son la vittima che geme… il mio nome almen salvate” e Riccardo protesta che non può e, mentre lei palpita chiedendo pietà, lui quasi si offende, “Così parli a chi t’adora?”. Lei gli ricorda di appartenere all’amico che per lui darebbe la vita; traboccano così il rimorso e la passione di Riccardo: “Ah, crudele, e mel rammemori… Non sai tu”, non sai che il mio amore è più forte del rimorso, che anchio ho invocato la pietà del cielo, ma non per questo posso “non viver di te”.
Su quest’ultima nota già entra la voce di lei, “deh, soccorri tu cielo”. Riccardo incalza, una sola parola, dimmi, dimmi che mi ami. E Amelia non può più resistere: sì, ti amo, però fa virtuosamente ai suoi sentimenti cavallereschi, chiedendogli di essere lui stesso a difenderla da questo sentimento. Sì, proprio, come no. “Fuori di sé”, suggerisce la didascalia e infatti Riccardo lo è: “M’ami, m’ami! sia distrutto il rimorso, l’amicizia… estinto tutto, tutto sia, fuorché l’amor!”, ed è travolgente la cabaletta “Ah, qual soave brivido” a cui Amelia risponde “Ah, sul funereo letto ov’io sognava spegnerlo, gigante balza in petto l’amor che mi ferì”. E non è finita, perché il fremente Riccardo di nuovo chiede “M’ami” e Amelia risponde “Sì” e qui si raggiunge il punto più incandescente, con l’orchestra che esplode e ci trasporta tutti in alto, per poi riprendere a due.
Non sapremo mai cosa sarebbe successo se i due innamorati non venissero adesso sorpresi dall’arrivo di Renato, come sempre intento a svolgere la sua funzione di angelo custode e balia del temerario conte.
Deve fuggire Riccardo, i congiurati sono sulle sue tracce, sanno che è con una dama e, se lei lo accompagna, potranno facilmente individuarlo. Ma come lasciare la donna che si ama, in una situazione a dir poco imbarazzante? Amelia stessa (si è coperta tutta col velo e nell’orrido campo c’era molto buio), pronta anche al sacrificio di sé, lo esorta ad andare. Allora Riccardo fa proprio una bella pensata, fa giurare all’amico di riaccompagnarla in città, “né un guardo né un detto su essa trarrai”. E lui giura.
Non c’è più tempo, Amelia lo sollecita, “Odi tu come fremono cupi” e si aggiunge Renato, “Fuggi, fuggi, per l’orrida via sento l’orma dei passi spietati”, mentre Riccardo non può affrontare i traditori, in quanto traditore egli stesso: “Innocente sfidati li avrei, or d’amore colpevole fuggo… La pietà del Signore su lei…”. Su questa “orma dei passi spietati” si è scatenata la critica più feroce. Come si fa a sentire un’orma? E i passi sono spietati? Ma perché non pensare invece a come i versi, peraltro un audace coacervo di immagini retoriche, corrispondono bene all’incalzare della musica, nell’urgenza e nella drammaticità del terzetto?
Renato e Amelia, che è quasi per svenire, restano soli, ma già i congiurati sono su di loro. Sono delusi di non aver trovato il governatore; almeno Tom vuol soddisfare la sua curiosità, svelando la dama. Il leale Renato, per difenderla, sguaina la spada e Amelia, per difendere a sua volta il marito, si getta in mezzo e così, ahiahi, le cade il velo.
Un istante di silenzio pieno di meraviglia per i congiurati, di amarezza per Renato, doppiamente tradito, di disperazione per l’infelice Amelia.
E adesso i congiurati sghignazzano, ironizzando su questo strano incontro (“la tragedia mutò in commedia”) e pregustando i “commenti per la città”, mentre al loro feroce sarcasmo si contrappongono il pianto di Amelia, l’ira di Renato. La sua decisione è presto presa, vendicarsi e invita Samuel e Tom a raggiungerlo a casa sua il giorno dopo. Essi dunque escono di scena, ma la loro risata continua a sentirsi in lontananza, mentre Renato, fedele al giuramento, si volge per ricondurre la moglie in città.
Con quale animo i due compiranno questo tragitto, è facile immaginare.
Atto terzo, primo quadro.
In casa di Renato, Amelia protesta la propria innocenza, “un istante è ver l’amai, ma il tuo nome non macchiai”, vabbè lo sappiamo noi perché. Il consorte sembra comunque ben deciso, “sangue vuolsi e tu morrai”. Lei si rassegna, ma chiede un’ultima grazia: “Morrò, ma prima, in grazia, deh, mi consenti almeno l’unico figlio mio avvincere al mio seno”. A tale sconsolata preghiera Renato si intenerisce subito, toccato dai “prieghi del materno cor”. No, non è lei che deve morire, è il sangue del conte che scorrerà a lavare l’offesa. Ed è bellissima l’aria del baritono, “O dolcezze perdute o memorie”, preceduta dal recitativo “Eri tu che macchiavi quell’anima”. Anche lui, come gli altri due protagonisti è dilaniato da sentimenti opposti.
Ma intanto sono arrivati Gianni e Pinotto, pardon, Samuel e Tom. Renato si unisce alla congiura, ma vuol essere lui a vibrare il colpo mortale. Litigano un po’ per accaparrarsi tale dubbio onore, decidono quindi di affidarsi alla sorte. Amelia rientra per annunciare l’arrivo di Oscar; sarà proprio lei a estrarre il nome del predestinato: guarda un po’, è Renato. Adesso Oscar può entrare a consegnare l’invito per il famoso ballo, “E’ un ballo in maschera splendidissimo”, spiega l’ingenuo paggio. E’ anche l’occasione buona per un assassinio. Ma Amelia ha capito qual è il premio che si vince a questa lotteria.
Atto III, secondo quadro.
Nel suo studio, Riccardo è assorto nel pensiero di Amelia, e infatti possiamo riudire il tema di “La rivedrà”. Il senso dell’onore però esige che si separino, i due sposi se ne torneranno insieme in Inghilterra, decide, lui sacrificherà il suo amore (ma a domandare il parere di lei ci ha pensato?). Comunque, “Ma se m’è forza perderti… a te verrà il mio palpito”, canta commosso.
Dal salone giunge già il suono delle danze (orchestra in palcoscenico) e il coro festoso degli invitati. Entra Oscar a portare la lettera di una sconosciuta, che svela il complotto. Ma Riccardo sa che è l’ultima occasione per rivedere il suo amore e non si tira indietro: “Sì, rivederti Amelia e nella tua beltà anco una volta l’anima d’amor mi brillerà!”.
Nella splendida sala tra gli invitati si aggirano Samuel, Tom e Renato, celati dal domino, un lungo mantello con cappuccio (da qui il titolo originario dell’opera Una vendetta in domino). Oscar ha però riconosciuto il segretario e lo ferma. Renato gli chiede come sia mascherato il conte; il paggio si rifiuta di rivelarlo, con la sua scherzosa canzone “Saper vorreste”, piena di grazia e di vivacità, sembra di vederlo piroettare gorgheggiando il suo “tralalà”. Devo dirgli una cosa importante, sarà colpa tua se non potrò farlo, lo minaccia Renato e il fanciullo, intimorito, cede.
Intanto Riccardo viene raggiunto dalla sconosciuta che lo supplica di fuggire. Perché ti importa della mia vita, le chiede lui. Ah, per essa darei la mia, esclama la donna. “Invan ti celi, Amelia” e se mi ami non m’importa neanche della morte, mentre lei lo supplica “T’amo, sì t’amo e in lacrime ai piedi tuoi m’atterro… Salvati, va’, mi lascia…”. Per salvare te, le spiega lui, ho disposto di mandarvi lontano (cioè leviamoci la tentazione): anche se mi si spezza il cuore, devo dirti addio. Non riesce a staccarsi, torna per salutarla ancora, ma sull’addio ripetuto più volte irrompe la voce di Renato, “E tu ricevi il mio”, mentre lo trafigge col pugnale (o gli spara con la pistola, se si opta per la versione originale svedese).
Le note del minuetto – minuetto di morte, lo chiamano i tedeschi – vengono coperte dal grido di Amelia, dalle voci di ufficiali e gentiluomini che accorrono, “A morte, a morte il traditor!”.
Ma il magnanimo conte li ferma:lasciatelo, impone, e lo chiama sè. Le note del minuetto si spengono livide.
“Ella è pura, in braccio a morte te lo giuro”. Si uniscono le voci di Amelia straziata, di Oscar, inconsapevole strumento della mano assassina, di Renato colto dal rimorso.
Il perdono di Riccardo assolve tutti. Invano gli astanti innalzano un fervido coro pregando che non sia loro strappato quel cuore generoso. Per il nobile governatore, per il gentiluomo galante, per l’uomo innamorato è l’ora dell’ultimo addio, al suo popolo, alla patria alla vita. “Notte, notte d’orror”, chiudono tutti.
3. La rappresentazione catanese.
La direzione dell’orchestra del Bellini è stata affidata a José Cura, il famoso tenore che è, uom di multiforme ingegno, una valida bacchetta e anche regista, sceneggiatore, compositore. Alla guida del coro, come sempre, Tiziana Carlini.
Nel primo cast due protagonisti ben noti al pubblico catanese, Marcello Giordani (Riccardo, come già nell’edizione del 2005), e Dimitra Theodossiou (Amelia). Anche il baritono calabrese Pietro Terranova ha già cantato al Bellini, essendo stato Cecil nella donizettiana Maria Stuarda e Belcore nell’Elisir d’amore; per di più è stato anche Egisto nella Cassandra di Gnecchi, l’opera da cui avrebbe un po’ scopiazzato Richard Strauss in Elektra – o forse viceversa. Ulrica era invece il mezzosoprano americano Nicole Piccolomini.
E di questa compagnia riporto solo i giudizi della stampa indigena, che registra otto minuti di applausi, elogiando tutto e tutti, con qualche isolata critica per la Piccolomini.
Ma io voglio invece parlare del secondo cast, di cui non fa cenno mai nessuno, e dire che gli interpreti hanno fornito una prova più che dignitosa, a cominciare dalla Ulrica di Elena Cassian e dal Renato di Enrico Marrucci, mentre Riccardo era Roberto Iuliano, sostanzialmente corretto seppur senza grandi voli. Abbastanza inadeguata alla non facile parte di Amelia mi è invece sembrata Patrizia Orciani. Ma la vera rivelazione della serata – tra l’altro rivestiva il ruolo in entrambe le compagnie – si è stata Manuela Cucuccio, anch’essa peraltro già vista altre volte, nel ruolo di Oscar: brava vocalmente, del tutto a suo agio sulla scena e, una volta tanto, un paggio credibilissimo anche come physique du rôle.
L’allestimento veniva dalla Fondazione Arena di Verona, con scene di Raffaele Del Savio e costumi di Alberto Spiazzi, entrambi tradizionali ma non banali.
Unica concessione al desiderio sempre presente di fare una cosa originale, Ulrica non è un’indovina afro-americana, bensì una zingara, con tanto di carrozzone, quindi l’orribile e razzista espressione “dell’immondo sangue dei negri” fa diventare il sangue gitano ma continua a chiamarlo immondo; ma non bisogna essere politicamente corretti con tutti? Non mancano i soliti esseri striscianti che nella scena dell’antro di una strega non mancano quasi mai, ma che qui sembrano meno giustificati.
Nella scena del ballo, inoltre, in mezzo a dame e cavalieri si aggirano alcune creature in costume da scheletro, il che fa pensare un po’ a una festa di Halloween; ma, trovandoci a Boston, forse ci stanno anche bene.
E veniamo al figlio e fratello d’arte, il regista Luca Verdone, già autore, tra l’altro, del film campione di incassi Sette chili in sette giorni, pure lui non nuovo al Bellini, avendo firmato l’anno scorso la regia delle mozartiane Nozze di Figaro.
Leggiamo nelle sue note di sala di aver voluto dare risalto all’aspetto noir della vicenda, definendone inconsueto, per Verdi, il carattere crudele e tenebroso. Ma questo signore (dottore, maestro?) li conosce, per non dir altro, Macbeth e Trovatore?
Leggiamo poi l’intervista rilasciata a Carmelita Celi sulla “Sicilia” del 19 gennaio. L’opera è definita “il set di un film dell’orrore”. L’abituro di Ulrica è reso, secondo lui, più macabro, quando l’abituro neanche c’è; a meno che non si sia portato dentro anche il carrozzone, a me è sembrata una scena all’aperto, fin troppo luminosa.
Il libretto è poi definito uno dei migliori tra le opere verdiane, con “uno scatto in avanti rispetto a certe facilonerie verbali del Trovatore” e così abbiamo sistemato anche il povero Cammarano che si starà rivoltando nella tomba. L’ho già difeso, io, il libretto di Somma, ma dire che è migliore dell’altro… Almeno quello si capisce che vuol dire, non ci sono né il “raggio lunar del miele” né “un amplesso che l’essere india” e via discorrendo.
Per fortuna che, a parte i vermi striscianti e gli scheletri – che secondo me sono aggiunte di questa edizione e a Verona non c’erano – questo grande aspetto orrorifico in questa regia non ce l’ho mica visto tanto, se non quando ce lo vuol mettere Verdi Giuseppe, e l’opera scorre tranquillamente come deve, una grande storia d’amore e di passione finita nel sangue – altrimenti che melodramma è?
E ora diamo un colpetto anche a Josè. Intervista sempre a Carmelita il 10 gennaio. “Un ballo in maschera è un’opera cinica, dura: ci ostiniamo a chiamare ‘duetto d’amore’ l’incontro di due persone di cui una vuole approfittare del suo potere… Riccardo è un mentitore anche… dicendo che ha ‘rispettato’ la moglie dell’amico…”.
Joselito mio, non ci siamo. A parte che non può essere un cinico uno che non vuole neanche sapere chi è che lo vuole ammazzare per non doverli ammazzare a sua volta e alla fine perdona tutti quanti (by the way, al vero assassino di Gustavo non andò affatto così bene: torturato e giustiziato), a parte ciò, per un ipocrita e bugiardo Verdi avrebbe scritto quella musica?
Vero è che non la conta giusta sostenendo di aver “rispettato il suo candor”, ma che doveva fare, dirgli mannaggia a te che mi hai rotto le uova del paniere? cerca solo di mettere un po’ di pace in famiglia.
Insomma, avrete capito che: a) odio i registi come categoria professionale; b) voglio la storia d’amore.
Per chiudere, finalmente, gradirei le vostre osservazioni su tutta la faccenda. Diamo pure voce ai “commenti per la città”.
Il vostro Fidelio