Il prodotto giornalistico realizzato dai ragazzi delle classi IV A, e IV C dell’IIS Rapisardi nel corso del progetto di alternanza scuola lavoro.
Donne e scienza: un binomio possibile
di Consuelo Orbea Y Menendez
L’8 Marzo scorso, giorno della festa della donna è stato anche il primo giorno in cui nelle sale italiane è stato proiettato Il diritto di contare, diretto dall’americano Theodore Melfi, già noto per il film St. Vincent. Il film racconta la storia vera della matematica afroamericana Katherine Johnson che, insieme alle sue colleghe Dorothy Vaughan e Mary Jackson, aiutò la Nasa nella corsa allo spazio. Grazie ai suoi calcoli, infatti, John Glenn divenne il primo astronauta americano a compiere un’orbita completa della Terra.
Le tre formidabili donne ebbero però non poche difficoltà a ottenere “il diritto di contare”, nel senso letterale del termine, talmente tanti furono gli ostacoli che le protagoniste di questa storia dovettero superare per affermarsi nel campo scientifico.
Katherine Johnson, avendo dimostrato precocemente grandi capacità intellettive che la portano a diplomarsi a 14 anni e a laurearsi a soli 18 anni in matematica e francese con la valutazione magna cum laude, è la prima donna che nel 1938 riesce a superare le barriere segregazioniste della scuola di specializzazione West Virginia University in Morgantown. Il suo percorso è stato costellato da una serie di discriminazioni in quanto “nera”, tra cui i pregiudizi di un mondo accademico “maschilista”.
Oltre al caso di Katherine Johnson non mancano esempi nella storia scientifica di donne la cui intelligenza e preparazione sono state messe in ombra dagli uomini: Rosalind Franklin, ad esempio, nonostante la scoperta della forma a doppia elica del DNA, non ricevette il Nobel, toccato ai suoi colleghi Wilkins, Watson e Crick, che le avrebbero sottratto le sue fotografie della diffrazione ai raggi X; Lise Meitner, poi, la prima a teorizzare con esattezza la fissione nucleare, fu oscurata dal suo compagno di esperimenti, Otto Hahn, che ricevette il Nobel. E ancora lo stesso destino toccò a Jocelyn Bell-Burnell, la cui scoperta dei pulsar, corpi celesti fino allora sconosciuti, fu attribuita al relatore della sua tesi, il professor Ewish, insignito del premio Nobel.
Rientrano tutte nella categoria dei “Nobel negati”, condanna alla quale in quell’epoca sfuggì solo Marie Curie, che ne collezionò ben due, surclassando il marito. Tra queste donne in ombra vi è anche Mileva Marić,la prima moglie di Einstein, il padre della relatività. Che la donna abbia contribuito alla scoperta della relatività è provato da una serie di lettere destinate ad amici, in cui Einstein elogia le capacità della moglie e si compiace del lavoro condotto insieme. Testimonianza chiave è quella del fisico Abraham Joffe, il quale anni fa affermò di aver visto i manoscritti originali degli studi sulla relatività del collega, firmati Einstein-Marity (versione ungherese del cognome Marić), una formula, quella del doppio cognome, propria delle donne.
Ma la convinzione comune che le donne non siano portate per la scienza non è solo frutto di un passato colmo di scoperte scientifiche tutte al femminile, poi occultate: nel 2014 una ricerca dell’Università della Pennsylvania sull’esistenza di differenze tra cervello maschile e femminile ha acceso un dibattito. Il gruppo di Madhura Ingalhalikar ha sottoposto a scansione cerebrale un migliaio di persone ottenendo come risultato che nelle donne i due emisferi sono collegati più intensamente, mentre negli uomini è emersa una rete di collegamenti più fitta all’interno dei singoli emisferi. Però è stato scoperto poi come i risultati della ricerca che erano stati divulgati fossero approssimativi e gonfiati, forse per alimentare teorie su ipotetiche differenze tra i sessi, che in realtà non erano emerse. Sorge dunque spontaneo un dubbio: le scoperte dei neuroscienziati sono state usate impropriamente per avvalorare stereotipi che categorizzano le donne esclusivamente come brave casalinghe, incapaci nella guida, e per finire non destinate alla scienza?
Quanto le convinzioni arcaiche divulgate hanno realmente influito sul modo in cui le donne percepiscono se stesse?
A questo proposito una ricerca interessante è quella del 2006 quando due ricercatori hanno sottoposto ad alcune studentesse un test di matematica, facendolo precedere dalla lettura di un articolo con la scusa di valutare la comprensione del testo. Metà delle ragazze ricevette un articolo su una ricerca inventata secondo cui nella comprensione della matematica uomini e donne si trovavano sullo stesso piano, mentre l’altra metà lesse un articolo che affermava una maggiore predisposizione genetica degli uomini per la matematica. Furono superiori i punteggi delle ragazze a cui si era fatto credere che non esistessero differenze legate al sesso.
Convinzioni culturali, stereotipi, fomentano quindi l’idea di una presunta inferiorità delle donne nel conseguimento delle abilità e competenze scientifico-matematiche, eppure la storia della scienza al femminile da Ipazia, la scienziata uccisa per linciaggio ad Alessandria d’Egitto, fino ai casi delle scienziate esaminate, mostra decisamente il contrario. È necessario dar fiducia alle donne e puntare sulle loro capacità sin dall’infanzia affinché il progresso scientifico continui la sua corsa inarrestabile in una prospettiva più rispettosa della dignità umana.
Il latino: l’“utilità dell’inutile”. Bettini, Dionigi e Gardini ne riscoprono l’attualità
di Rosy Cosentino, Lorena Crispi, Daniela Cusumano, Daniela Rocco, sotto la guida della Prof.ssa Carla Biscuso
A che serve studiare il Latino? Gli studenti se lo chiedono quasi giornalmente dinanzi al faticoso esercizio di traduzione che spesso sembra richiedere una logica oscura persino ai “nativi digitali”, abituati a “messaggiare” in T9 attraverso costrutti da Neoavanguardia.
Volendo dare un senso a qualcosa che apparentemente non lo possiede, per parafrasare una famosa canzone, lo si può forse ritrovare nell’eterna modernità dei temi trattati dagli autori latini o nella loro serenità nel dire tutto senza filtri di sorta.
Sì, è forse questo il motivo per il quale lo si studia ancora nella società del profitto e del sapere immediatamente spendibile. Per lo meno è questa la risposta che ci si dà leggendo A che servono i Greci e i Romani di Maurizio Bettini” (Einaudi 2017), Il presente non basta. La lezione del Latino di Ivano Dionigi (Mondadori 2016), Viva il Latino. Storia e bellezza di una lingua inutile (Garzanti 2016), e Con Ovidio. La felicità di leggere un classico di Nicola Gardini (Garzanti 2017), libri che ripropongono l’annoso problema.
Bettini e Dionigi con un approccio razionalistico e Gardini con una strategia comunicativa più basata sull’emotività riescono a convincere il lettore della cosiddetta “utilità dell’inutile”.
Che il Latino abbia un’importanza per colmare il bisogno di poesia avvertito da più parti lo ricorda il professore Ivano Dionigi invocando il sofista Gorgia di Lentini il quale scriveva che “la parola può eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione>”.
E la parola latina non è statica per la sua capacità di rappresentazione dei vari aspetti della realtà.
Aevum/ aetas, pontus/mare, gladius/ensis, ignis/focus: sono soltanto alcune delle forme linguistiche aventi lo stesso significato ma differenti rispetto al registro linguistico.
E la bellezza del latino la si può riportare alla luce compiendo un’opera di scavo che tolga alle parole italiane quella coltre di polvere che si è depositata col tempo. Chi non prova un brivido o un po’ di commozione nel sapere che la parola desiderio proviene da desiderantes, cioè il termine con il quale si indicavano i soldati che sotto un cielo stellato attendevano il ritorno dei compagni dal campo di battaglia?
Studiare il latino per riscoprire nuove forme di approccio alla realtà, per vivisezionarla nelle sue prospettive più recondite, per cogliere aspetti inediti come dimostrano Catullo, Lucrezio e Ovidio quando trattano il tema amoroso.
E se è vero che non bisogna aver paura di essere ridicoli nello scrivere delle lettere d’amore, come ricorda Vecchioni, forse si può essere ancora più tranquilli sapendo che qualcuno prima di noi lo ha fatto con naturalezza, definendo una delle componenti primarie della vita umana in tutte le sue gradazioni fisiche e psicologiche. Ma dai classici provengono anche le parolacce e il turpiloquio in generale, la cui funzione è spesso quella di dar voce a forme di protesta sociale o di critica nei confronti di una società che ha smarrito il rigore dei costumi. Una vera e propria concretezza quella del latino che emerge sia nella centralità dell’idea di tempo sia nel primato concettuale della politica e del concetto di stato, denominato con la parola res.
Che l’attenzione alla politica sia insita nel lessico latino lo si deduce dal rapporto che intercorre tra la parola liber, “libro”, e l’aggettivo liber, “libero”. Fuor d’ogni vana retorica: la cultura e la conoscenza di una lingua che ha caratterizzato la storia dell’Europa per secoli ci rendono liberi e ci mettono in grado di recepire criticamente e autenticamente la realtà. Se i classici sono quei libri che non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire, come ricordava Calvino negli anni ’80, forse quelli latini hanno una marcia in più grazie alla loro innata concretezza e alla loro facoltà di dare sfogo all’immaginazione e a quelle “fantasie sostitutive” che rinnovano il rapporto tra mente e mondo.
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