Una lezione su modalità alternative di uso e consumo dei beni comuni ma anche di strutturazione della società e di felicità dei cittadini. Il docente universitario spiega perché l’Economia civile è la risposta.
di Elisa Catanzaro
Una lezione di storia innanzitutto, poi di economia, di filosofia, di politica e di vita. Senza tema di smentita o di essere tacciati di piaggeria, possiamo definire così la Lectio Magistralis che Stefano Zamagni, economista e docente universitario ha tenuto nei giorni scorsi a Palazzo della Cultura, nel corso dell’incontro organizzato da FuturLab e Le terre del Tau.
Zamagni ha parlato del tema “Economia civile: una soluzione alla crisi” essendo sulla materia uno dei massimi esperti.
Le origini dell’economia
Una lezione di storia, dicevamo, perché il professore è partito dalle origini sottolineando come, nonostante per la stragrande maggioranza degli studiosi l’economia abbia radici anglosassoni – considerandone come padre fondatore lo scozzese Adam Smith – quest’ultima sia nata invece in Italia e per l’esattezza a Napoli: qui infatti nel 1754 la prima cattedra di Economia, di cui si ha notizia in Europa, fu affidata all’autore delle lezioni di economia civile, Antonio Genovesi.
E qui la prima stoccata del professore universitario: “Non sappiamo valorizzare le nostre radici! Già alla fine del Settecento sono stati accantonati tutti i libri di economia civile, fino allora dominante, e sostituiti con quelli di economia politica professata da Smith, rappresentante dell’egemonia culturale della potenza inglese”.
Quindi il docente ha spiegato quali sono le differenze fondamentali tra i due paradigmi, determinanti nelle conseguenti misure che ciascuno prevede poi per la società.
“Si parte da due diversi assunti antropologi – ha spiegato Zamagni-. Mentre l’economia politica si fonda sull’aforisma di Hobbes ‘Homo homini lupus’ – poi trasformato in ‘homo economicus’ – e quindi vede l’altro come un potenziale nemico da cui difendersi, l’assunto dell’economia civile è ‘Homo homini natura amicus’.”. L’uomo cioè è per natura amico degli altri uomini.
Il principio di reciprocità
Un punto di partenza dunque diametralmente opposto spiega l’economista che introduce, accanto ai due requisiti necessari per far funzionare la cosiddetta economia di mercato, ossia lo scambio di equivalenti e il principio di redistribuzione, il principio di reciprocità.
Da sin: Abramo, Minà, Zamagni, Maltese, Parisi, La Ferrara
“Per gli economisti tradizionali il terzo principio non c’entra niente con la materia, ma è solo ignoranza – afferma Zamagni -. Il fine cui tende il principio di reciprocità è la fraternità. Cioè ciò che mi muove nello scambio con l’altro è il dono come gratuità, lo faccio dunque sulla base non di una pretesa ma di un’aspettativa: se mi trovassi nelle stesse condizioni riceverei lo stesso trattamento. Quindi non vige il principio di equivalenza, come nell’economia politica, ma di proporzionalità. È un dare senza prendere e un prendere senza togliere”.
È questo il cardine attorno cui, secondo l’economista, deve ruotare il cambiamento ed è un processo che ha cominciato a muovere i primi passi 25/30 anni fa.
Il ritorno dell’economia civile
Dopo secoli di dominazione dell’economia politica – spiega Zamagni – l’economia civile sta riemergendo anche nei paesi anglosassoni perché di fronte alle sfide più grandi di questa fase storica il principio di redistribuzione non basta più, la società intesa in senso esclusivamente capitalistico non è sufficiente. Questo non significa, aggiunge, negare lo scambio e la redistribuzione ma inserire il principio di reciprocità.
“Negli ultimi 30 anni – ricorda – il Pil è raddoppiato ma vi è stato un aumento endemico delle diseguaglianze, un impoverimento estremo dell’ambiente, un aumento dei suicidi e dell’uso di psicofarmaci. Siamo al 50° posto nella graduatoria delle Nazioni Unite della felicità”.
Pil o Bes?
Zamagni cita dunque il “paradosso della felicità o di Easterlin” secondo cui, superata una certa soglia fino alla quale l’aumento del reddito è correlato all’aumento della felicità, avere più denaro non significa essere più felici. E poi parla del Bes, l’indice di benessere equo e sostenibile, misurato dall’Istat.
“Noi viviamo per aumentare il Pil o il Bes?” – ha spiazzato la platea il professore -. È un problema di natura politica, dovrebbe essere il popolo a scegliere.
Insomma, ha concluso, per ridurre le diseguaglianze, arginare la questione ambientale, ridurre l’infelicità delle persone è necessario intervenire con l’economia civile, realizzando una biodiversità del mercato: quindi dando spazio non solo a imprese capitalistiche, ma a cooperative, imprese sociali, società benefit.
“Bisogna passare da un modello dicotomico, Stato e Mercato, a uno tricotomico i cui ai due elementi precedenti si aggiunga la Società civile organizzata. Inoltre bisogna mettere in atto la sussidiarietà circolare, ossia far interagire Stato, Imprese e Terzo settore per decidere la priorità sugli investimenti, trovare i fondi necessari per il bene comunitario, che ha bisogno di una gestione diversa rispetto a quello privato e quello pubblico”.
L’incontro, moderato da Orazio Maltese, ha visto l’intervento del presidente di FuturLab, Antonio La Ferrara, del presidente della cooperativa Le Terre del Tau, Guido Minà, di Emiliano Abramo per la Comunità di Sant’Egidio, e dell’assessore alle Politiche sociali Fortunato Parisi.